8 Febbraio 2014 - La pillolona n° 11 di Bagablob

Nella tana del Gattopardo

Dopo ore di attesa, di appostamenti, di ammiccamenti e di incontri nella penombra di improbabili taverne ritmati dalla musica de ‘u marranzanu, trovo il gancio.

Si tratta di un suo fidato collaboratore, nell’ambiente conosciuto come Zi’ Guido ‘o sfortunato, che mi accoglie nel tinello del suo appartamento, al piano terra di un quartiere di una città che, per ovvie ragioni di salute, mi astengo dal citare.

E gli accordi sono proprio quelli.

Muto devo stare.

Zi’ Guido non parla ma, soprattutto, non fa parlare.

E’ seduto davanti ad una bacheca, camicia bianca aperta sul petto, catenone d’oro e avanbraccio teatralmente appoggiato sullo scarno tavolo in mogano a tenere il mento con il pollice della mano destra, senza con questo impedirsi di sorreggere, tra l’indice ed il medio, un enorme cubano i cui effluvi fanno da sottofondo olfattivo dal momento in cui sono entrato nel covo di Zi’ Guido.

Altrettanto platealmente il braccio sinistro del mio silenzioso interlocutore è steso in avanti a coprire buona parte del lato mancino del tavolo. Al polso un Rolex Daytona che appoggia leggermente sulla mano aperta ad accarezzare una bottiglia di Chivas, quasi vuota, che dista dal mio naso non più di trenta centimetri.

Il mio è uno sguardo interrogativo e Zi’ Guido capisce subito che la domanda che ho in canna non può che riguardare – e cos’altro sennò,  pena la pelle - la questione del Rolex: è un Daytona, ma di che tipo ?

Non mi lascia il tempo di capire e ritrae di scatto la mano, dopo aver agguantato la bottiglia per riempirsi il bicchiere posto alla sua destra.

Io, ovviamente, non bevo.

Per un singolare gioco di luci sullo sfondo del ghigno impenetrabile di Zi’ Guido, riesco a decifrare in cotanta voluta semioscurità, il contenuto di alcuni scaffali della bacheca: una bibbia, alcune coppe, una serie di pizzini di cui solo uno leggibile (ma non decifrabile) in cui c’è scritto “panca fissa, a uomo”.

Appiccicato al ripiano più alto della bacheca, sulla destra, un foglio contenente una lista di nomi un po’ bizzarri in cui ne spicca uno particolarmente buffo, come secondo della lista: “Sgrunt”.

Anche stavolta il mio sguardo interrogativo è decriptato immediatamente da Zi’ Guido, ma ora come cosa perigliosa assai, potendo – come di fatto è – contenere la domanda sui motivi di quel nome e, soprattutto, di quella posizione nella lista.

Zi’ Guido lascia lentamente il bicchiere di Chivas e con la stessa mano fa un gesto insieme infastidito e perentorio, mentre con un soffio mi getta contro il fumo della sua ultima boccata di cubano: dito indice e medio sollevati e poi portati impercettibilmente indietro, verso la spalla destra: “chiuri”, dice.

Le ore di lettura sull’antropologia dialettale siciliana accompagnate dai piè di pagina a spiegazione del linguaggio del corpo, mi aiutano e non lasciano adito a dubbi: quello è un comando rivolto a qualcuno.

Si, ma a chi ?

Questo, invece, è un interrogativo che resta tale per pochissimi secondi.

Alle mie spalle si materializza un ombra di cui non avevo percepito  neanche il respiro e capisco che si tratta della stessa anima che, poco prima, mi aveva socchiuso l’uscio della casa in cui mi trovo ed aveva, evidentemente, anche soppesato ogni mio minimo movimento.

L’ombra si dirige spedita verso la finestra della cucina, che dista da me un paio di metri e ne chiude l’anta sinistra, facendo piombare l’intero ambiente in una inquietante ed ancor più penetrante oscurità, interrotta flebilmente solo dallo schermo del portatile appoggiato su un altro piccolo tavolo posto ai piedi della bacheca, a distanza di sicurezza quanto basta per non far nascere in me ulteriori curiosità.

Prima che quel refolo di insicura luce di un pomeriggio invernale sparisca, riesco a leggere nel retro della maglietta dell’uomo che mi è passato accanto con passo veloce per eseguire l’ordine di Zi’ Guido, le sei lettere impresse a caratteri cubitali: “il bove”, c’è scritto.

Ma è un rebus anche questo e decido di non attivare alcuna sinapsi, perché ho capito che chi ho di fronte legge anche il pensiero.

La bacheca, nel frattempo, sparisce dalla mia vista.

La seconda ed ultima parola proferita da Zi’ Guido è rivolta a me ed ha l’effetto devastante di un profetico addio: “dumani”, sussurra.

“Domani”.

Ma non chiedo cosa succederà domani, anche perché è chiaro che me lo spiegherà, con pochissime parole, “il bove” che, nel frattempo, mi ha appoggiato la mano destra sulla spalla con questo lasciando intendere che la visita è finita.

Il “domani” è un appuntamento all’area di servizio di Rosarno Est, alle cinque del mattino.

In un silenzio irreale, rotto da uno sparuto gruppetto di giapponesi che curiosamente sta fotografando, a quell’ora, la colonnina dell’aria della stazione di servizio, mi accoglie, alla sua maniera, senza una sillaba, colui che, per la corporatura, riconosco subito come “il bove”, l’insalutato guardaspalle di Zi’ Guido.

Stavolta “il bove” è in gessato stretto, al pari dei suoi accompagnatori che mi sembra addirittura di riconoscere.

Ma forse è solo una coincidenza e, se non lo è, non è il caso di documentarsi troppo.

Uno ha l’aria dello “scugnizzo” napoletano, l’altro – e

qui il ricordo si fa maledettamente e pericolosamente nitido – mi sembra addirittura di averlo visto in una foto postata su facebook mentre si dilettava in una gara di valzer.

Cosa ci facesse la grossa benda nera nelle mani del “ballerino” lo comprendo all’istante.

Lascio la macchina e, accompagnato solo dal taccuino e dalla penna, appena bendato mi fanno accomodare, con un lievissima ma molto esplicativa pressione sulla nuca, sul sedile posteriore di una macchina che intuitivamente catalogo come di grossa cilindrata.

Quello che capisco, sempre ad intuito, è che alla mia sinistra siede “il ballerino” e che stiamo riprendendo l’autostrada in direzione sud.

La prima parte del viaggio non mi sembra lunghissima anche se chi è alla guida (per esclusione quasi sicuramente lo “scugnizzo”) abilmente è uscito e rientrato dall’autostrada almeno due volte.

Tento di decifrare i chilometri che stiamo percorrendo, cosi come di contare ogni svincolo ed ogni manovra più o meno brusca per capire dove ci stiamo dirigendo. Poi al buio della benda mi ricordo di Zi’ Guido e così decido, molto serenamente , che è meglio lasciar fare.

Manovre dilatorie comprese, quando ci fermiamo devono essere passate due ore scarse.

Saranno quindi circa le sette del mattino quanto la vettura in cui mi trovo si ferma in un luogo che sa assolutamente di mare, tanto è forte l’olezzo che pervade le mie narici.

In lontananza si ode solo il suono ovattato di una sirena e rumori che riconduco a catene o comunque a ferraglia che striscia, rotola e percuote.

Nettamente percepisco un suono simile, molto più vicino a me, sotto la macchina che intanto riprende la marcia, ma non su una strada, bensì su di una pendenza costante che intuisco essere ferrosa e comunque costellata di tanti piccoli scalini che fanno sobbalzare ritmicamente l’automobile.

Dopo una serie di brevi ma decise manovre ci fermiamo, ma di lì a qualche minuto ho la netta sensazione che comunque siamo in movimento.

Un movimento diverso dal moto lineare di una automobile, decisamente un avanzare ondeggiante e in qualche misura armonioso.

La certezza ora è che non siamo in un luogo vicino al mare come qualche minuto prima, bensì letteralmente “sul” mare.

Una voce di bambino sopra di me, non molto lontana, certifica la bontà della deduzione: “papà, ‘u pisci ‘u pisci !”.

“Muto !”, l’apostrofa la voce di un adulto che soffoca così quel gridolino di gioia.

Il bambino non parla più.

Ne concludo che certamente il papà lo manderà  a ripetizioni da Zi’ Guido.

L’impercettibile smorfia di soddisfazione al di sotto della benda nera – frutto di una acquisita distintissima certezza sul dove ci troviamo - è subitaneamente intercettata dal “ballerino” che mi è rimasto accanto per tutto il tempo.

Stavolta il campione di valzer accompagna la leggera pressione sulla nuca ad un  gesto inequivocabile: spostandosi aderisce al mio corpo facendo sentire la sagoma del ferro che tiene sotto l’ascella destra.

Decido che siamo senz’altro dalle parti di Cinisello Balsamo.

L’ondeggiare non dura molto e in poco più di mezzora si ripetono quei rumori di ferraglia e catene, con la macchina che, stavolta, scende avanzando su di un percorso fatto di curve strette e comunque sempre costellato di piccoli scalini metallici.

Usciti da quel qualcosa che per alcuni minuti ci ha fatto fluttuare, avanziamo ora su una strada, e comprendo, dal continuo scalare delle marce, che stiamo percorrendo brevi tratti di quella che sembra una gimcana.

Poi l’avanzare si fa più quieto e più regolare, con il fortissimo odore marino che scema gradualmente, così che ad ogni chilometro lo si lascia alle spalle.

Decido che quella vissuta è stata una breve ma piacevole sensazione olfattiva: prima o poi bisognerà provarle queste mazzancolle di Cinisello.

Un breve frenata, il “bip” di un cancello che si apre nel silenzio di un luogo che sembra campagnolo, tanto è assordante il silenzio che ci circonda, a cui fa da sottofondo solo il lieve cinguettare di ancora assonnati uccellini.

La terza pressione sulla nuca – che il loquacissimo “ballerino” mi dedica – vuol dire che siamo arrivati.

Entriamo in una casa, ma subito penso che la terminologia migliore possa essere “villa”, magari “grande villa”, se sto per incontrare il boss dei boss e se faccio il confronto con il ricordo del luogo in cui ho incontrato Zi’ Guido, il gregario del Capo.

Ma quando la benda nera libera, finalmente, il mio volto imperlato di un sudore che vuol dire emozione, timore ed estasi per l’incontro che cambierà la mia vita di cronista, vedo un mondo diverso da quello che avevo immaginato.

L’ambiente è scarno e male arredato, per i miei gusti.

Alla mia sinistra una specie di scranno sormontato da un piccolo tavolino che, curiosamente, mi sembra di aver già visto all’ Ikea, il cui colore avorio è ammorbidito dalla luce soffusa a led che promana da una piccola lampada appoggiata sul lato destro di quella che intuisco subito essere la postazione di lavoro del Capo.

Alla sinistra di quello spazio che avrà visto nascere le decisioni più importanti ed inquietanti della fantacupola, un armadietto altro circa un metro e mezzo e largo non più di settanta centimetri.

Sembra quasi una di quelle dispense in cui si conservano le scope e quant’altro necessita per la pulizia della casa.

Un  tremore mi scuote: alla vista di tanta modestia mi sorge il dubbio che il vero boss l’ho già incontrato il giorno prima ed era quello del “dumani”.

Una flebile conferma a questo flash angosciante, in un primo momento, mi sembra provenga dal contenuto di un foglio appiccicato maldestramente all’armadietto con scotch da pacchi marrone.

Leggo distintamente “INPS” e la sensazione che “il bove” si sia sbagliato e mi abbia condotto da un ex boss in  quiescenza, si fa sempre più netta.

Alla destra - di fronte alla squallida postazione di lavoro, sulla parete opposta – un frigorifero di marca sconosciuta, di quelli che si usano per le seconde case e la cui durata in attività di solito è inversamente proporzionale al numero di volte in cui viene aperto.

Sopra al frigo troneggia una cesta enorme, di misure sproporzionate rispetto alla grandezza (ed alla qualità) dell’elettrodomestico che la sorregge.

Dentro alla cesta un’unica qualità di frutta che, vivaddio, parla (eccome) a dispetto del silenzio che circonda da ore il mio viaggio.

E la frutta parla chiaro sia del luogo in cui siamo (impronunciabile ed impensabile), sia dei gusti del (presunto) Capo: Tarocchi Messina.

Di fronte a me, sullo sfondo della parete che mi sta davanti, un tavolo in mogano che mi fa pensare a quello visto nel tinello di Zi’ Guido, anche se subito scarto l’ipotesi che il Capo si diletti a fare le compere all’Ikea insieme al suo secondo.

Dietro il tavolo forse il pezzo più pregiato che arreda l’ambiente: una sedia stile Luigi XV, di legno di quercia intarsiato, impreziosita da una stoffa porpora molto elegante.

E’ un pezzo più da sala da pranzo, ma non mi formalizzo: l’uomo di cui sono ospite non credo distingua molto gli ambienti, visto che non ho ancora capito se mi trovo in una quasi-cucina o in una quasi-sala da pranzo.

E poi la sedia è bella, bellissima se penso che questa sicuramente non l’ha presa all’Ikea.

Spostando lo sguardo da quel singolarissimo trono, sulla destra, scopro con stupore che, forse, sono anche in una quasi-camera da letto.

Appoggiata al muro, perpendicolarmente al tavolo, una branda da campeggio con sopra un materasso di quelli costosi, tipo “memory” (quindi sconsigliatissimo per le aule bunker).

Accanto al giaciglio una sediaccia con seduta in paglia.

Non mangio da qualche ora, non ho fatto colazione e probabilmente ho bisogno di zuccheri: un leggerissimo capogiro mi coglie quando ho la sensazione che la sediaccia stia facendo la linguaccia alla Luigi XV.

Ma che sia la casa giusta lo capisco quando “il bove”, “il ballerino” e lo “scugnizzo” – in questo stretto e gerarchico ordine – si avvicinano con fare ossequioso all’uomo che siede imperioso sulla sedia, manco a dirlo, più preziosa.

A turno gli baciano la mano e Lui li osserva con fare attento e valutativo sul grado di sottomissione che ognuno dei tre dimostra, quasi a soppesare l’umidore subalterno di ogni singolo bacio.

A me, nel frattempo, non ha degnato di uno sguardo.

La conferma che sia Lui l’uomo che tento di incontrare da giorni, la ricavo da una frase del “bove” che credo proferisca la quarta, al massimo quinta, frase composta da quando l’ho conosciuto: “Vossia voglia gradire i più rispettosi saluti da  Zi’ Guido”.

Al sentire quel nome mi sembra che sul volto dell’uomo che ho davanti nasca immediata una smorfia di maliziosa soddisfazione.

Poi - e questa è forse la sesta frase che le mie orecchie accolgono dal minimalista “bove” : “Vossia, è lui”.

Il palmo della mano sinistra del vice di Zi’ Guido si alza e repentino il dito indice mi traguarda da mezzo metro.

Il Capo resta immobile e non muove neanche la testa per inquadrarmi meglio, visto che mi trovo leggermente decentrato rispetto alla virtuale linea retta che parte dal suo volto.

Gli occhi, invece, felinamente si spostano e mi inquadrano per la prima volta.

Un gesto lento, quasi stanco, della mano sinistra ben riconosciuto dai presenti, eccetto me, fa scattare lo “scugnizzo” che, spostandosi sulla destra, agguanta la sediaccia per porla di fronte al tavolo in cui è seduto il Capo.

La prima mossa è quasi scacco matto e penso subito che quella sediaccia e la Luigi XV che, guarda caso, sta sotto le chiappe del Capo, non si trovino nello stesso ambiente per un caso fortuito: insomma l’uomo da Ikea sono io.

Il tavolo di fronte a me è sgombro se non per la presenza di un foglio che mi sembra di aver già visto nella bacheca di Zi’ Guido, solo che qui della lista è evidenziato il primo nome dell’elenco: “Gattopardi”.

Il Capo capisce subito, mi guarda, guarda “il bove”, intuisco che con la mano destra, che sparisce sotto il tavolo, si è dato una salutare e liberatoria ravanata alle palle e (stavolta è certo) sorride beffardo.

“Così lei sarebbe interessato a farmi qualche domanda”, dice.

Mi sembra di scorgere del ghiaccio che esce dalla parete dietro all’uomo che ha parlato e istintivamente giro lo sguardo verso destra per capire se è il quasi-frigo che fa condensa.

“Chi io ?, Io no !”

Ma non parlo, tanto la lingua è attaccata al palato.

Sono i miei occhi che parlano ed il Capo li legge.

“Se vuole a vostra disposizione sono….., chieda, chieda pure…..dumanni”.

Il passaggio al “voi” ha l’effetto di una tisana e mi sento più a mio agio.

L’importante – ed “il bove” me lo fa chiaramente intendere nel nanosecondo che i nostri sguardi si incrociano – è che io sia convinto che ci troviamo nell’hinterland milanese.

Rassicurato dalla loquacità degli astanti (da quando sono entrato nella casa del Capo si è parlato più di quanto si faccia nell’intera ora d’aria all’’Ucciardone), finalmente parlo.

“Si, sarei interessato a farle qualche domanda sulla fase di apertura della Lega Amara”.

Per un attimo ho il timore di avere fatto una minchiata a non dargli del “voi”, poi però concludo che forse ho fatto bene in quanto non sono (e non devo) pormi sulla loro stessa antropologica ed idiomatica lunghezza d’onda.

“Ah”, ribatte ostentando sorpresa, quasi a lasciare intendere che non sapesse neanche chi fossi.

Poi, dopo una pausa interminabile: “Dunque voi conoscete la Lega Amara”

La voce gli esce quasi severa.

Stavolta ho fatto la puttanata, penso.

Mi convinco che a breve sarò parte integrante dei piloni che sosterranno il prossimo ponte sullo stretto di Cinisello Balsamo.

Decido di osare e mi gioco quasi tutto.

“Sa, sono un amatore……”.

Sul volto del Capo nasce uno sguardo quasi interrogativo e comprendo che, molto probabilmente, ciò è dovuto al termine che ho usato: “amatore” da queste parti (sempre a Cinisello) è sostantivo che vuol dire una sola cosa, spesso assai poco salutare.

Stavolta dietro alla parete del Capo scende una cascata d’acqua, mi giro di nuovo verso il quasi-frigo per capire se è il caso, finalmente, di sbrinarlo ma incontro solo lo sguardo compiaciuto del “ballerino” che, dondolando leggermente la testa in avanti soddisfatto, lascia chiaramente intendere: “stavolta l’hai fatta a’ minchiata”.

Oramai persuaso che farò presto parte di una Grande Opera, già mi vedo nelle mani del “ballerino” come il tacchino di Natale.

Ma il Capo non intende, evidentemente, assecondare la bramosa voglia di vendetta del suo sottoposto al quale non sono certo simpatico.

“Bene, a noi piacciono gli amatori”.

La parete di fronte a me ridiventa d’incanto asciutta e morbida e con l’orecchio destro sento distintamente il “clic” del quasi-frigo che riprende a funzionare regolarmente.

“Allora, se lei permette”, oso.

Con un gesto volutamente lento e platealmente visibile lascio andare la mano sinistra verso la tasca della giacca dalla quale estraggo un piccolissimo registratore sfuggito, incredibilmente, alle perquisizioni dei sottopancia del Capo.

Un altro “clic” del quasi-frigo è sovrastato dal gesto rumoroso e repentino del “ballerino” che mette mano al ferro sotto la giacca e sta per avventarsi verso di me.

Ma la mano sinistra del Capo, con il palmo rivolto in avanti, si alza istantaneamente a fermare con veemente e silenziosa autorità quel gesto inconsulto.

I movimenti del “ballerino” si pietrificano.

Un altro “clic” del quasi-frigo certifica la ripresa della corretta refrigerazione.

La stessa mano del Capo che ha fermato cotanta sete di vendetta, si fa più dolce e scende lentamente richiudendosi a conchetta verso di me, così invitandomi ad andare avanti.

Stavolta è il “clic” del pulsante “rec” del mio registratore ad essere protagonista.

Il quasi-frigo non risponde, evidentemente già appagato dai successi dei “clic” precedenti.

Sono quindi di fronte all’uomo più potente e temuto della Lega Amara e ciò mediamente dovrebbe porre qualche dubbio sulle reali possibilità di uscirne vivo.

Ma oramai la legittimazione che mi deriva dal fatto di essere stato accolto nel suo covo, mi infonde una forza inaspettata, quasi disperata, tanto che la stessa sediaccia Ikea che accoglie il mio sedere mi sembra disposta a battersela fino alla fine con la Luigi XV.

 

Ikea: “Cosa risponde a chi afferma che lei avrebbe vinto l’apertura della Lega Amara grazie ad una interpretazione estensiva dell’art. 41bis del regolamento ?”

Luigi XV: “L’articolo 41bis è una strunzata emerita! Una minchiata senza limiti e confini! Ma come è mai possibile, signor mio, che al giorno d’oggi ci sia ancora qualcuno che possa mai pensare che, niente-niente, addirittura, si possa trarre un quassichessia favuri da tanta minchioneria?

Io sono e sarò sempre un sostenitore dell’abolizione assoluta del 41bis, altro che vantaggi! O almeno, dell’abolizione del 41bis per gli amici mei, degli altri me ne posso anche catafottere… ma vantaggi, no! quando mai….”

Per un attimo, un semplice solo istante, l’immobilità quasi ieratica del Capo sembra scomporsi, salvo poi riprendere subito la postura consolidata.

Ikea: “E’ vero che le piace molto vedere ‘Il maxiprocesso del lunedì ?’”

Il Capo non mi risponde, muove gli occhi prima verso il quasi-frigo (che se ne guarda bene dal “cliccare” ulteriormente), poi verso il “ballerino” il quale sobbalza nel ricevere telepaticamente il pensiero al fulmicotone del suo Capo: “ma voi veramente mi avete portato qui questo scribacchino pi fammi sti dummanni?”

Come un automa Il “ballerino” ripete il gesto precedente, stavolta convinto di potermi azzannare al collo, ma per la seconda volta, resta pietrificato dall’occhiataccia del boss che decide, bontà sua, di rispondere.

Luigi XV: “Nonsi. Quella è roba… munnizza, spazzatura. Dru jarusu ki capiddri russi a unni finiu, signore mio, me lo sapete dire voi? Che fa ora, quacche televendita? Quella sarebbe la giusta fine per un quaccuaraqua che altro non faceva che mettere in cattiva luce onesti fantamister come noi… nonsi, io mai lo vidi! Ma chi lo vide, questo disse: munnizza…. E noi, ‘a munnizza… la smaltiamo a modo nostro….”.

Sorrido pensando all’immagine di Biscardi impegnato in una televendita di mazzancolle di Cinisello, su commessa del boss.

Ma l’ora è troppo grave per lasciarsi andare a pensieri così frivoli.

Ikea: “Parliamo del livello più alto, quello dei colletti bianchi………..tutti abbiamo un Prez?”

Mi guarda, adesso, dritto negli occhi.

Luigi XV: “Voi cattolico siete?”

Resto spiazzato, cosa c’entrerà mai adesso questa incursione religiosa ?

Penso alla risposta che possa compiacerlo maggiormente.

Ikea: “sì, sì… certo”.

Luigi XV: “E allora, signore mio, ricorderà bene cosa dice il primo comandamento….”

Ikea: “ehm.. sì, sì, certo”

Sto bluffando disperatamente ed ho la stessa sensazione di quello che rilancia su un poker di donne con due sette.

Il boss si porta un dito perpendicolarmente alle labbra e quasi sussurra.

Luigi XV: “Non nominare il nome del Prez invano… shhhhh”

Il modo con il quale il boss proferisce quel nome e lo sguardo di fuoco che mi lancia, hanno l’effetto tipico del merluzzo del mare artico che ti scivola fra le mutande.

Sono però disposto a tutto e non mi fermo.

Ikea: “Chi, tra i suoi attaccanti, è più caricato a pallettoni ?

Luigi XV: “A pallettoni, signor mio? – ridacchia - Ma lo sentite voialtri? Ma a unni u truvasti uno così… spirituso?!?”

Mi sento fottuto, ma il boss vuole giocare come il gatto con il topo.

Luigi XV: “I miei attaccanti non sono caricati a pallettoni, nonsi… bombe hanno nei piedi, bombe da attentati… per questo li chiamano “bomber”, no? Ah..! Beata ignoranza….!”

Manovra spericolatissima: parlare del suo nemico.

Ikea:  “Cosa ha da dire allo ‘scissionista’ Sgrunt ?

Stavolta sono i salmoni della Groenlandia a risalire le mie mutande.

Un silenzio lungo, snervante. Poi la voce del Capo.

È tremula, quasi metallica. Ma anche violenta.

Luigi XV: “Quello sgarruso…. Se non fosse per il rispetto che porto personalmente per quella fimmina, la sua presidentessa… quello sgarruso, bastaso, ‘nniricatu… lui e quel contadino suo eterno alleato, il fattore Kappa…. Biiiiiiii ! troppo vuole. Troppo in alto andò. Mai contento… e allora, visto che pure quest’anno il rischio di vederlo ancora in testa, grande, ma che dico grande? grandissimo era !, dovetti personalmente di persona me medesimo intervenire per porre un freno a questa sua sregolata megalomania… A sgrunt, con la minuscola, non ho nulla da dire, come se fosse un qualunque sbirro e confidente di questura, e nulla dirò nemmeno in presenza dei miei avvocati.”

Cerco di allentare la tensione.

Ikea: “Ci racconti della bagarre avvenuta alla decima di campionato: è vero che gli scontri alla Vulcano Arena sarebbero stati causati dal fatto che il capo dei tramvieri non si è tolto la coppola al momento di salutarla ? Qualcuno ricollega quell’episodio anche alla successiva misteriosa scomparsa di Quagliarella………”

Luigi XV: “Sciocchezze, sciocchezze……… tutte fesserie inventate da malevoli personaggi che speravano in una squalifica di campo per farci perdere terreno…  solo che quelle macumbe, quei tentativi di malocchio e jettature… diavolerie signor mio! si rivolsero contro i facitori, tant’è che proprio in quella giornata, la decima, quel fituso nonché bastaso di sgrunt (sempre con minuscola) sconfitto uscì a mano di quel brav’uomo di Mascalzone. “

Affondo finale e mi gioco tutto.

Ikea:  “Un’ultima domanda: ma lei, veramente, chi è ?”

Vedo un sorriso allargarsi sul volto del boss dei boss e una luce improvvisa mi sembra lo renda quasi mistico.

Sono gli ultimi fotogrammi di un film fantastico.

Mi sento sollevare di peso, da dietro, in maniera brusca e mi è facile immaginare che tanta carineria mi sia dedicata dal “ballerino”.

Allo stesso momento Il Capo si alza, mi viene vicino e mi guarda dritto negli occhi.

Dal mio taccuino strappa un foglietto, sul quale scrive brevemente qualcosa e subito dopo averlo appallottolato, me lo ficca a forza in bocca.

Luigi XV: “Facissi buon viaggio, scribacchino… ma non ingoi il mio messaggio…”

 

Il ritorno è un ripercorrere le sensazioni di qualche ora prima, compreso l’odore del mare che ora mi è più difficile intercettare a causa del pizzino gentilmente offerto dal Capo, che mi curo attentamente di non ingoiare.

I miei silenziosi compagni di viaggio mi lasciano dove mi avevano preso e le uniche parole che mi rivolgono sono un monito perentorio: non togliere la benda prima di un quarto d’ora da quando si sono allontanati.

Per non sbagliarmi mi sbendo in un arco di tempo che stimo sopra alla mezz’ora, non si sa mai.

Il primo pensiero è per il messaggio che recupero dall’angolo sinistro della mia bocca.

Il Capo ha scritto poche parole: “ACDP, segnati ‘sto nome…”.

Un sussulto mi scuote.

Guardo il cielo, sta facendo buio.

E penso: “chissà se tornerò mai ad assaporare la brezza marina di Cinisello”

 

BAGABLOB